“La Ballerina e l’uomo di latta” [Racconti dell’Alba]

di Tripella

Racconti dell’Alba

Alzò le braccia e sembrava una di quelle statuette dentro ai carillon. La musica era già cominciata poco prima del giro di carica: il respiro.
Il colore della pelle era di poco più scuro della ceramica, appena più pallido del proprio sorriso. Aveva una paura di quelle da esordio, di sale sul sangue, con la vittoria in tasca e la sconfitta in testa, la luce sul viso e il torace d’ombra.

Il pubblico era in silenzio, gemmava l’attesa dagli occhi appena carezzata dal tappeto jazz sotto ai piedi, sui capelli e accanto alla stessa ombra, dentro.

Aspettare il momento della partenza, come quando il treno si vede in lontananza e si cerca il saluto migliore per la solitudine che si ha accanto, la malinconia appesa agli occhi quasi a staccarsi. Quando il treno si ferma, il saluto giusto non si è ancora trovato, ma arriva lo stesso: è quello che succede. C’è sempre un errore a cui si ripenserà, uno sguardo troppo breve o un sinonimo non trovato, di solito per l’addio. Poi si parte.

Così attendere il momento giusto del pezzo, quello in cui occorre muovere il primo passo.

Quando arriva, parte. C’è un errore, c’è di sicuro, ma è comunque quello giusto.
Muove il piede destro e dietro la gamba e sembra una vela in rada, riposata. Comincia a ballare.

E’ il momento più importante di tutti.
Rosa attende quel momento da anni: anni di preparazioni e fatiche, di tentativi ampi, di sforzi castrati dal singhiozzo e singhiozzi castrati dall’adrenalina.
Il saggio più importante della sua vita.

Ma non è il giorno del saggio, è il giorno precedente: il momento più importante. Di tutti.

Fluttua il suo corpo di fronte al pubblico che luccica in silenzio, nella sala d’ospedale che diventa il teatro più capiente dell’universo, per i desideri che spezzati a metà diventano grandi il doppio e occupano più posto, costipano il sangue.
Prosegue la musica e dagli occhi dell’uomo seduto sulla sedia a rotelle – il pubblico – precipitano piccole dosi di ricordo.

Prosegue la musica e il corpo di lei si muove a tempo con il loro tempo, come i tempi migliori, quelli condivisi. E’ perfetta, si adagia su ogni nota come se fossero ninfee su cui appoggiarsi in una favola, per superare il lago. Non esiste niente che non siano i suoi fianchi e i capelli legati male, con tutti quei piccoli ciuffi che escono dagli elastici come studiati perché si confondano le soglie della morte, tutta intorno in quella stanza d’ospedale.

Finisce la musica.
“Che ne dici?” – sorride Anna.

L’uomo sulla sedia a rotelle, in quella stanza d’ospedale color disagio, non riesce ad aprire bocca. Fa un cenno col capo. Prova con tutto se stesso a sorridere, ma la sua bocca rimane seduta.

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