Nebulae n. 5 – prima parte

Nebulae.
Una rubrica di Andrea Sciullo

 

Ho appena finito di mangiare e questo sole ventoso mi impedisce di gustare il calore che dovrebbe emanare. Mi sono rinchiuso in camera. Il disfatto e il disordine non mi disturbano. Dentro di me albergano due differenti personalità, per cui posso sembrare il puntiglioso e il maniacalmente ordinato e, in contemporanea, l’irrimediabile e transigente pasticcione. Oggi è l’oggi cui necessita il disordinato.

Non mi sento molto fuori di me, a dir il vero sto vivendo ma non mi accorgo dell’andare della mia vita. È un momento morto. Di quelli che vivi quando ti metti in pausa, quando sei dentro una parentesi che stenti a voler richiudere, dopo che ti accorgi di averla aperta troppo tempo prima. La mia vita è altro o è ormai diventata quella stessa parentesi?

Non posso prescindermi dal continuare a riflettere. Penso sempre a qualcosa. Qualcosa dentro la mia testa si scervella sempre in qualche strampalato quesito. Passo dal senso generale dell’esistenza al perché ancora mi trovo fermo e stantio in una parentesi cosmica non mia.

Perché mai devo sentirmi così sfuggentemente non-me? Perché mai alla mia età devo farmi complessi simili? Non era più semplice convivere con un’esistenza quotidiana, tranquilla e normalmente abitudinaria?

Forse avrei dovuto non propormi niente e capirlo fin da subito che non era perché avevo fame o volevo dormire che da bambino piangevo. Sarebbe bastato un pizzico d’inventiva in più! So essere tanto intelligente a volte, perché però sempre quando non serve?

Sono ancora nel letto, ma ora i miei pensieri scodinzolano come un cane ansioso di uscire di casa, e mi ritrovo a immaginare lo scheletro in legno che contiene il materasso come una zattera emaciata e popolana. Immagino si sorregga su una prua e una poppa e che al centro si lasci guidare da un improvvisato albero di mezzana. Le coperte raggrumate in un batuffolo, sogno si librino e si distendano, a formare la vela. E che da un canto alato di una brezza di montagna si lasci sospingere.

Continuo a sognare e così continua la sua corsa.

Ora navigo un torrente in una gola appenninica e prendo velocità. Prima a zig zag costeggiando l’una e l’altra sponda, poi indirizzandomi al centro e scostando tutti i rami penzolanti dei cerri e degli abeti a peso morto sul filo dell’acqua. Sono in vista di una cascata, un ruzzolone di cento piedi che abbatterebbe il mio piumone spezzandone tutte le lignee e immaginarie costruzioni. Vado sempre più veloce. Veloce, sempre di più. Il bordo incalza ignoto. Vedo una linea dove presumo sprofondi la cascata, si fa sempre più vicina. Mi chiama. Mi ammalia. Mi invoglia a gettarmi. Sibila al vento, convince il mio cuore, è sempre più vicina, vado più veloce, non mi fermo, non c’è appiglio. Veloce, sempre più veloce, è prossima! E..

A cosa devo questa tacita sofferenza? A cosa questi spasmodici respiri senza significato che di tutto mi fanno dubitare e con nulla mi rassicurano? A cosa è dovuta questa vita?

Già, sono tornato in camera.

Nel petto mi freme ancora un respiro tremante, spaurito. Ho nello stomaco quella sensazione di accaldato e febbricitante sollievo. Come se per un attimo avessi avuto davvero paura di sprofondare nel nulla.

Io mi sento sempre un po’ così.. Immobile sul ciglio di una tempesta, che tento di fare slackline sulle due preponderanti estremità. Da una parte la pacatezza di un’ordinaria e fasulla esistenza; dall’altra il tumulto dei sogni e il caos delle astrazioni, l’illogico temporale estivo e le notti invernali che arrivano senza una stella. Chi sono io, secondo te?

Ha un nome questa dimensione atemporale che mi vede in equilibrio fra due oceani così biochimicamente diversi? Se ce l’ha, perché in quanto unico abitante, a me dev’essere sconosciuto?

Non lo so, non lo so..

 

[fine prima parte]

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