Racconti dell’Alba. “Bell’incubo, Bellamorte” di N. Olindo

di Nicole Olindo –

Alla fine, anche il non essere è pur sempre qualcosa.

Sapevo di essere in un sogno. Avevo visto quell’immagine troppo spesso nella mia infanzia, nella mia testa, ma ancora dopo anni non riuscivo a capire cosa fosse. Non tentavo più nemmeno di descriverla. Sapevo solo che c’era mia madre, giovanissima, coi capelli rossi e lunghi; lo sfondo bianco, poi qualcosa di marrone e che pareva roccia sciolta, o forse feci, o forse ancora fango rappreso. Era come una muraglia di fango, ecco. Ma non lo era. Non sapevo davvero come identificare quella “cosa”.

Ad un tratto la muraglia era divisa in due, sempre sfondo bianco. Poi le due parti iniziavano a scontrarsi ritmicamente come se fossero un macchinario per la pressa, con un rumore da fabbrica, che man mano aumentava di velocità – e così anche il loro movimento. E più accelerava, più sentivo che la muraglia cresceva, quasi fino a soffocarmi sebbene io fossi esterna al sogno. Era un incubo, per dire la verità. Il sentore di un’ansia inumana che provavo durante quella visione ricorrente mi toglieva il fiato, e una volta sveglia la ricordavo sempre uguale, ma mai senza poterla descrivere.

Non penso di averla descritta meglio neppure ora.

Sognai quella “cosa”. La rividi dopo anni, quando ormai la mia età era piena di ansie simili, ma più reali.

La sentii di nuovo, e al risveglio, come uno shock, mi voltai di scatto tra le lenzuola alzando il piumone piumato e mi strinsi il viso al cuscino. Quando aprii gli occhi c’era lui.

Mi guardava dal suo cuscino, sempre più vicino a me. Nei suoi occhi traspariva un senso di amore, un qualcosa che vidi e sentii addosso da subito – e che mi calmò.

Notai che il mio cuscino era umido: avevo pianto. Piangevo sempre durante quel sogno.

Per consolarmi lui si avvicinò ancora, ed io incerta se pensare all’incubo a darmi a lui senza pensieri mi mossi per baciarlo. Ma appena sfiorai quel suo corpo che pareva vero, umano, la mia mano toccò una guancia informe, le mie labbra toccarono il vuoto.

Mi svegliai davvero, allora, e realizzai che nel mio letto non c’era nessuno. Stavo sdraiata in una posizione impossibile, con la schiena dolorante, e le mie labbra toccavano il dorso di una mia mano. Mi sentii stupida.

Lui era il niente. Ma il non essere poteva pur significare qualcosa, no? Me lo chiedevo sempre.

Mi sdraiai comoda con lo sguardo sul soffitto. Le travi di legno davanti a me davano l’impressione di soffrire per la mia stupidità: impolverate, aspettavano di piovermi addosso.

Fu in quel momento che mi resi conto di tenere le gambe divaricate. Le mie mutande risultavano umide al tatto, calde, e un odore di morte saliva dalle coperte.

Guardai il display del cellulare che tenevo sotto al cuscino: era il 31 marzo, e avevo appena perso un bambino mai avuto.

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