Nebulae.
Una rubrica di Andrea Sciullo
Si inasprisce quest’incompresa veemenza, questa assurda incapacità d’essere soggetto al giogo delle regole e dei confini. Non è nella natura di un Uomo non soffrire lo stridio caotico delle catene.
Questa massa magmatica di perpetui crogiolare pian piano mi si plasma dentro con le sembianze di un treno a vapore, che mugghia come il vento e mostra la sua irritazione sputando fumo e “ciuf ciuf” ardenti!
-dov’è finita la libertà?-
Steso su un letto di cui dovrei esser grato, mi guardo attorno e non scorgo che pareti di un’architettura antica, d’antiquata lavorazione. I raggi solari si alternano alle stelle, l’aria fredda del tardo meriggio si irrigidisce e timbra il cartellino per il venticello serale, che di lì a poco non tarderà a raggrumarmi le carni con brividi rampanti. Tutto è liscio, ma non muta. Scorre da manuale come i gesti ripetitivi degli operai nelle catene di montaggio degli anni ’20.
Apporto le mani alla testa, è già passata un’altra ora.
Ondeggiano le assi del letto ad ogni cambio di posizione. Prima su un fianco, poi a destra, tutt’un tratto di lato: la camera resta la stessa, lo scenario sembra non voglia sottomettersi ad un’operazione chirurgica!
Cigola sull’elettrocardiogramma del mio sonno un cuore in tempesta, e quel posto che mi propinava iniezioni di conforto e rassicurazioni di caldo ristoro, comincia ad apparirmi come una cella.
Non ci sono più finestre sufficienti. Mi defenestra l’anima perfino l’apparenza che m’induce a credere che ci siano realmente. E il dubbio inizia ad insinuarsi cauto nelle radici del mio senno: “E se anche la finestra fosse solo un abbaglio?”
-dov’è finita la libertà?-
Nei rivoli di lacrime sulle mie guance si corrode un pianto asciutto, sento ancora il profumo della nottata in lontananza. Ormai l’ora avrebbe trasparito una primavera di lune: il momento della serata in cui s’affievolisce il tramonto e a poco a poco spuntano dal niente piccoli bocci di stelle a bucherellare la coperta del cielo.
Un crepuscolo nella sua magnificenza eguagliato solo dalla mia impossibilità d’assaporarlo.
O sorte interdetta! Girovago con lo sguardo sulle imperfezioni del cemento, sui grumi della vernice.
Tutto così familiare, tutto così angustamente nauseante.
Mi apporto le mani ad un volto consunto da lacrime silenti. Fiorisce in me la morte al gemmare della vita.
-dov’è finita la libertà?-
Vitrea come il cristallo d’un bicchiere mi si rischiara la Natura e bussa alle persiane della mia immaginazione. Piovana, arida, lussureggiante, innevata. Non ha limiti il suo variopinto vestiario.
Ad ogni toc-toc senza risposta, mi indica il pomo della mia mortalità e sorride mostrandomi un orologio. Subito il primo toc si trasforma in tic e un senso esteso di trasalimento mi contorce le membra, mi sfiora i tendini come l’archetto bacia le corde del violino e in ascesa decresce sulle mie scapole.
Queste pareti si divertiranno a vedere il tempo allontanarsi da me.
O Amore! O quartiermastro rosa dei miei giovani sogni!
-dov’è finita la libertà?-
Un girotondo di assuefatte ansie mi avvinghia il pensiero, mi stringe a sé come le cinghie di cuoio disinnescavano le urla nei manicomi. La stanza si accartoccia su di me come una foglia invernale.
Sempre più piccola. Sempre più piccola. Sempre più piccola. Sempre più piccola.
La mia ragione si ammutina al mio intelletto e si esilia nelle prigioni delle profondità del mio inconscio.
Sono in balìa delle rappresaglie. Le mura si schiacciano sopra le mie fantasie e inizia ad affaticarsi la voglia di star al mondo. Ho la costante sensazione di rabbrividire, ogni volta che accedo ai meccanismi di un conscio vicino al collasso. Penso, e gli ultimi secondi di una stella morente mi strillano nelle orecchie con lamenti di dolore e disperate richieste di soccorso.
Tento di respirare per acquietare il caos, respiro, ma un respiro di cemento mi gratta i polmoni come due ginocchia in caduta libera urtano la ghiaia. Tutto si fa angusto, riservato, mortuario.
Mi duole il petto nell’ansia di quest’attesa, si accappona la mente come le squame del cadavere d’un serpente. Il cuore cessa di battere e riprende a stento, un valzer russo sembra cadenzi i ritmi ad uno dei suoi più promettenti ballerini. Là fuori ancora la Natura splende, e s’inghirlanda l’animo alla vista della mia prossima tomba, e se ne compiace esaurendo i suoi sorrisi lontano da me.
Nel momento di disperazione massima, quando fatidica era la sola descrizione certa del volto di una Morte curva sulla mia salma, l’ultimo cunicolo di normalità mi avverte essere passato un altro giorno, e l’aurora non aveva mai splenduto così vivace. Si congratula sorridente.
“Ebbene ricominciamo! Dov’è finita la libertà?”