di Arianna Orrù
Venti storie di violenza, subìta e taciuta. Una mitragliata di racconti duri da digerire che allagano, di inchiostro e verità, le pagine di un libro-inchiesta, frutto del lavoro di un gruppo di giornaliste del Corriere della Sera e autrici del blog del Corriere.it “La 27esima ora”.
“Un libro che mi ha fatto commuovere ed infuriare. Leggetelo anche se fa male”, sono le parole di Daria Bignardi.
“Questo non è amore” raccoglie voci di vite graffiate, storie senza regole, partite giocate senza arbitri, dove le donne sono le uniche a perdere. Dietro al rosario di percentuali e statistiche sgranato dai media ogni giorno e vomitato dalle pagine dei quotidiani, ci sono donne. Normali. Donne che restano aggrappate a un’illusione a colori, a un ideale di cartapesta, donne che amano mostri. Donne stuprate nell’animo prima ancora che nel corpo. Donne che ingoiano lacrime e rabbia e si aggrappano al loro carnefice con l’ostinata disperazione di chi non ha più nulla da perdere. Donne strette all’angolo della vita. Sono storie comuni di persone comuni. Volti senza nome, bocche cucite: madri, sorelle, mogli.
Qualcuna riesce a bucare la coltre di omertà e indifferenza, sovverte le regole, rompe gli schemi.
E vince. Game over, man.
Ma per una che risorge ce ne sono altre dieci, venti, cento, che precipitano nel baratro.
Non esiste immunità alla violenza, ingiustificata, assurda. Siamo tutte esposte. Tutte uguali. Tutte fragili allo stesso modo. Tutte straniere in una terra di nessuno.
Il volto sardonico e beffardo di una democrazia della paura, che dispensa in egual misura a tutte.
“Questo non è amore” dà voce alle grida intrappolate nell’intonaco dei muri della vergogna, nella risacca della memoria. Parole che tornano a galla come olio nell’acqua.
Racchiude un insieme di testimonianze dure, dirette, drammaticamente vere.
Una narrazione che si serve del discorso diretto, di parole crude come stiletti, di frasi scarne e oscene, gergali e quotidiane. In un continuum emotivo che accompagna il lettore fino all’ultimo girone dantesco. Il lettore che diventa testimone silenzioso,Il comune denominatore che lega la vittima e il suo carnefice è solo la paura. La paura che muove la violenza, la paura che nutre l’indifferenza, la paura che alimenta la vergogna. Ma chi non parla muore prima e muore solo; è questo il messaggio-chiave del libro: solo chi si libera del fardello che si porta dentro può tornare a spiegare le ali.
Ci sono storie-manifesto, come quella di Sara, che si seppellisce sotto una montagna di sensi di colpa.
“La prima volta che mio marito mi ha picchiata sono rimasta sorpresa, ma l’ho presa come una dimostrazione d’affetto: anche mio padre da piccola mi picchiava sempre. E lui era l’amore della mia vita, il padre di mio figlio: se mi menava era perché mi amava. Me lo meritavo, avevo sbagliato io”.
Storie come quella di Sara ce ne sono a bizzeffe, fotocopie sbiadite di vite dove le stesse parole ritornano come in un mantra ossessivo. “Cambierà”, “senza di lui non vivo”, “è stata solo una volta” “ha dei problemi, devo capirlo”.
Questi rapporti vittima-carnefice, spesso affondano le loro radici nel passato, in rapporti familiari distorti e complicati e in una profonda incapacità di accettarsi. Si tratta di uomini che declinano la parola amare in sinonimi di violenza e soprusi e nutrono il loro ego malato con la paura e la vergogna che riescono a alimentare nelle loro vittime. Come il caso di Elena:
“ Pensavo che la colpa fosse mia. Che lo soffocavo con il mio amore. Che non sapevo prenderlo e renderlo felice. Per anni mi sono umiliata sperando che lui diventasse un uomo migliore, quello che era prima di sposarci..” E prosegue: “Ad ogni litigio seguiva la fase della riconquista. A casa cominciavano ad arrivare mazzi di fiori a ogni ora…Ero lusingata, inutile negarlo. Però in quella determinazione c’era anche qualcosa di forte, una specie di imposizione”.
Ma al coro di voci femminili che si rincorrono per tutto il libro, fanno eco anche quelle dei protagonisti di questa recita a senso unico, gli uomini. Uno fra tutti, Francesco: “Io non sono un aggressivo seriale. Mi sono ritrovato in una situazione di malessere che era già presente dentro di me…Sono cresciuto in una famiglia in cui mio padre picchiava mia madre, mio zio picchiava mia zia, la figura dell’uomo era quella del padre-padrone. Ho visto queste cose, ne ho il ricordo, da bambino le rifiutavo ma non sapevo come difendermene. Vedevo intorno a me il vuoto più assoluto. Quando è successo il fatto, io per primo mi sono autodenunciato. Ho lavorato tanto su di me. Prima di essermi pentito di quello che ho fatto, mi sono reso consapevole. Il pentimento è un sentimento subdolo perché può nascondere la paura. E la paura è ciò che fa scattare la violenza”. E prosegue: “L’uomo violento è un uomo fragile, le sue paure vengono chissà da dove. A volte hanno paura delle donne quando riconoscono la loro superiorità o vedono che la loro compagna diventa autonoma. Si diventa gelosi”.
Sono ancora molte le voci che si intrecciano in questo romanzo pulsante e sincero: c’è chi è riuscita a sottrarsi ad un destino già scritto per amore dei figli, chi per una sorta di risveglio e chi ancora per un rigurgito di spirito di sopravvivenza.
Ci sono donne che hanno avuto la capacità di uscire dal guscio spesso dell’omertà e riprendere in mano la propria vita. Donne cambiate nell’animo, nel profondo. Donne che non saranno più le stesse. Ma che hanno saputo dire basta. Mettere un punto. Salvarsi.
“Questo non è amore” è un lavoro eterogeneo, un’inchiesta collettiva che vuole servire da confronto. Un passaparola salvifico. Una scialuppa di salvataggio per chi ha davvero il coraggio di lasciare la presa dell’orco. Un libro che unisce all’utilità giornalistica e sociale anche una funzione pratica. Le ultime pagine vengono infatti riservate agli indirizzi utili, dove donne in condizioni disperate e inghiottite dal nero della solitudine possono trovare ascolto e aiuto. Che aggiungere se non che di iniziative così ce ne sarebbe bisogno più spesso.