di Rosamaria Nicassio
La notte. Alla notte, c’è il silenzio e la quiete, il riposo delle cose. C’è la luna e il suo sguardo rotondo, la luce diafana riflettersi nelle vie, la sua aria guardinga scrutare i gatti sui tetti. Alla notte, c’è la stanchezza di un padre, la sua anziana solitudine e i residui rancidi sul tavolo da cucina, c’è l’ombra di una madre che aleggia nella fiamma di una candela soffusa al davanzale, un ragazzo innamorato e una giovane trasognata, un assassino col delitto tatuato sul laido corpo. Alla notte c’è la Morte, con la sua faccia da teschio, e l’indovino cieco ad assaporarne l’avanzare. E poi c’è la città, una violenta sala da gioco in cui si consuma il reato, l’uccisione crudele di combattenti a gettone, ma non solo.
Edito da Feltrinelli, “Blues in sedici – Ballata della città dolente” vede la sua prima pubblicazione nel gennaio del 1998. Come già preannuncia il titolo, l’opera dell’acuto Stefano Benni è una raccolta di sedici ballate pensate e scritte per una lettura recitata, e scandita da sottofondi musicali blues. Per questa sua finalità semiotica, il testo è stato levigato, nel corso di quattro anni, dallo stesso autore che, insieme con l’aiuto del musicista Paolo Damiani, ha realizzato un dialogo commosso e teatrale tra note e poesia.
“Blues in sedici” trae ispirazione da un fatto di cronaca degli anni ottanta: nel cuore della notte, un povero padre, operaio disoccupato, esce di casa e attraversa la città, come fosse stimolato da un presentimento. Il suo cammino lo conduce in una sala videogiochi abitata da furfanti e da assassini in preda ad una resa di conti; tra quelli volano colpi di pistola furiosi, e il vecchio, per proteggere il figlio che per caso passa di lì, regala al giovane la sua morte, salvandogli la vita.
La crudezza del dolore, l’acredine di una società virulenta, e pure l’abbandono dell’uomo miserabile: è questo il mélange emozionale che gli otto personaggi protagonisti dei versi benniani ci raccontano. Viviamo la lettura di una futuristica Spoon River, di una sua rivisitazione deandriana più sanguinaria e fatalistica, tracciata a colpi di tristezza, di malinconia e di disillusione consapevole, una critica politica e l’esposizione drammatica dell’inflazione etica che governa le vite di chi, come il Killer e la Città digitalizzata che risorge a colpi di “Insert coin”, ha perduto la sua essenza vitale, affondando nella fatiscenza più degradante. Tuttavia, la forte tendenza pascoliana, figlia della tradizione whitmaniana, è ravvisabile nella dolce figura di un padre vecchio e disperato, arreso ai suoi pochi spiccioli, supino a un dio stanco, e dolente, alla luce fioca dei neon nel supermercato, alla vista di una scatoletta di pomodori tanto buoni, ma anche tanto costosi. La morbidezza fanciullesca della giovane Lisa, la sua energia che trae forza dalle radici, dall’intensità panica, tipica della poesia pavesiana, si fonde con la tenacia di una madre, il cui alito palpita nelle rose delle siepe e nelle onde di un mare in tempesta. Ma tutti i personaggi, nonostante le parole che affidano al sacrificio della speranza, alla perseveranza della credenza, raccolgono solamente la consapevolezza pessimisticamente leopardiana della morte.
Come in una tragedia senechiana, l’azione drammatica è affidata alla parola dei singoli personaggi e, come fossero la protasi di un poema epico, alcuni segmenti di testo recitano: “Cantami il Rosso e il Verde dell’Imparziale”, “Cantami i giorni senza inizio né scopo”. È evidente l’intenzione dell’autore di mettere in scena una perfomance funerea di stampo mitologico, ma che in realtà corrisponde alla trasfigurazione concreta di una realtà di morte, di sangue, di febbre e di pena, di sentenze e di riscatti che incontrano la purezza e la genuinità dei sogni e dei gigli.
In questa silloge Stefano Benni abbandona la verve satirica e comicheggiante, precipua degli scritti prosaici, mantenendo la lucidità di una vecchia penna, e colpendo a sferzate più nostalgiche ma saldamente coscienziose l’animo dei lettori.
“Blues in sedici” è una sfida per la penna dell’autore e per l’animo del lettore, lo sprone ad una indagine attenta per l’occhio dell’osservatore. “Blues in sedici” è un canto d’usignolo a primavera, stonato d’improvviso dal caos di una metropoli alla deriva, dal rimbalzo di una boato trepidante, mentre le case, all’alba, dormono, pallide, un mattino sonnecchiante.