Racconti dell’Alba. “La Me numero due” di N. Olindo

Lei era sempre nella mia testa.

Mi sembrava, all’inizio, di poterla annientare; dopotutto, un pensiero è pur sempre qualcosa di astratto. Ma la sensazione che lei fosse qualcosa di più di un vago passaggio di immagine mi faceva inorridire. Mi spaventava.

Era colpa sua se desideravo di morire. Solo dopo anni di lotte interiori si è fatta accettare, ma in fondo non l’ho mai amata. La sua era l’occupazione peggiore: viveva in me per distruggermi.

Era lo strascico di una me dodicenne: depressa e autolesionista. Negli anni, invece di lasciarmi alle spalle ciò che ero stata – come tutti, d’altronde – avevo scisso lei da me, lasciandola però vivere ancora nella mia testa.

Cercai per molti anni a non darmi la colpa per averle voluto bene. Mi faceva pena, alla fine. Ero per sempre io, quella brutta persona che tentava di dirottare ogni pensiero e ogni buona conquista. Qualcosa in lei mi ricordava la fragile me – perché lo era, fondamentalmente – e un po’ mi faceva pesare il passare del tempo. In fondo, essere una piccola adolescente in fase di suicidio mi piaceva. Mi era piaciuto, soffrire, finché qualcosa mi ha obbligata a crescere per prendere decisioni giuste.

Lei era sempre lì, pronta a sabotare la mia vita anche quando qualcosa andava bene. E nel momento in cui, ormai ventenne, la mia vita prendeva una piega meravigliosa, la sua presenza cominciò ad essere ormai insopportabile. Per quanto mi facesse pena, io stessa – la nuova me, quella giusta – volevo uccidere quell’ombra. Non volevo permetterle di sabotare il mio amore per la vita, le mie passioni e il mio lavoro, ma soprattutto non avrei mai pensato di lasciarla vivere in eterno dentro di me.

Parlare con lei era impossibile. Anche davanti allo specchio del bagno, sopra al lavandino pieno delle mie lacrime, mi era impossibile comprenderla. Lei mi guardava. La vedevo sul mio viso ormai umido, la scorgevo nello sguardo che mutava. La mia espressione non era più mia, ma apparteneva a lei per qualche attimo. Il mio corpo veniva invaso dalla sua presenza, e io, in quel momento, non ero me. E volevo morire, qualunque cosa fosse successa, qualunque cosa bella avessi con me in quel momento. Perché nonostante le bellezze della vita, lei era con me e non se ne sarebbe mai andata. Ero pazza, agli occhi degli altri. E forse non me ne importava. Lei c’era, e pazza o savia, non me ne interessavo più: la mia lotta non poteva essere nascosta.

Non potevo morire, ma neanche vivere. Vivevo nel mio limbo di tenebra, parlando da sola, piangendo a causa dei “suoi” pensieri, e sparivo dal mondo perché non ne potevo far più parte.

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