“Mancarsi”, Einaudi. Una recensione.

di Arianna Orrù

“Mancarsi” è un libro breve, ma densissimo.

De Silva sminuzza i suoi personaggi, li adorna con cura, e poi li offre al lettore come un piatto di sushi. Crudi. Te li inietta nelle vene a poco a poco e lascia che ti lavorino da dentro.

Irene e Nicola, i protagonisti, ti restano impigliati addosso pagina dopo pagina. Ti costringono a chiederti chi sei e cosa ci fai calato proprio nella tua vita, se è questa quella che vuoi e che ti spetta, o ne aneli in realtà un’altra. E allora fingi.

Con il loro sguardo, tolgono il sottile velo di ipocrisia che ricopre le cose: gli inutili formalismi, le vuote apparenze, gli stupidi perbenismi, le finte reticenze.

Strappano il copione, semplicemente.

Si trovano soli ad un certo punto della loro vita; soli con questo poker servito in mano, che è la totale ed assoluta libertà. Allora li assale la paura.

Paura di sbagliare, di uscire fuori dal ruolo che è stato loro assegnato.

Nicola, privato d’un tratto della moglie Licia, non smette di essere quello che era per timore di non riconoscersi, di perdere i suoi punti di riferimento certi e si lascia annegare dalle abitudini: poche uscite con gli amici di sempre, nessun fuori programma di nessun tipo.

Niente, il solito Nicola. Solo senza Licia.

Era lei il metro attraverso il quale Nicola misurava se stesso: il suo tempo, le sue esigenze, i suoi desideri; era lo specchio che faceva rimbalzare la sua immagine di uomo.

Come in una difficile partita di biliardo giocata tutta di sponda. Lui era solo un riflesso.

Ora che Nicola la libertà ce l’ha davvero, non sa più che farsene.

Ora che la libertà è diventata una responsabilità da gestire, uno spazio vuoto da colmare, un disegnare a mano libera la propria vita. Senza bordi, rischiando delle sbavature.

Così Nicola resta nei limiti conosciuti: un mare senza argini che si rifiuta però di tracimare.

“Era come se avesse ricevuto una cospicua eredità da un parente lontano che neanche conosceva, e provasse l’imbarazzo di usarla”. La vera libertà, in realtà, consisteva nel puro desiderio di essa, nel sapere di poter fare, ma non farlo. Una porta perennemente socchiusa sul possibile.

“Trovava che il bello della libertà fosse nel minacciare di servirsene”.

Nicola mette nero su bianco, ogni sera, i fallimenti del suo matrimonio. Li redige scrupolosamente, punto dopo punto, come un documento da presentare a un giudice. Il più severo: la sua coscienza.

Uno su tutti.

“L’aver pensato che tu contassi più della felicità”.

E Nicola si rende conto che quel brandello di felicità che gli è stato negato, lo vuole davvero. Che è là, fuori, da qualche parte, pronto per essere afferrato. Su qualche altro viso, negli occhi di qualche altra donna.

Come Nicola, anche Irene è sospinta dagli eventi verso un cambiamento inevitabile, un ravvedimento, una presa di coscienza di sé. Il suo è un risveglio che la trasforma in una donna più forte e capace di scegliere. Una donna che non lascia tutto intatto come lo trova, ma sforbicia gli eventi qua e là per farseli calzare perfettamente addosso.

I due si sfiorano senza incontrarsi. Nello stesso bistrot, ma in tempi diversi. Come un collegamento via satellite, dove ora ti arriva l’immagine, e più tardi la voce.

Cambiare prospettiva e direzione, far tacere il buon senso che brucia le ali e “abbassa il livello delle aspirazioni”, sarà la loro salvezza. Il loro zenit. L’azzeramento di tutto, come una moviola tirata indietro a velocità supersonica. Polverizzando le abitudini e sorprendendo la realtà di spalle.

Questa destrutturazione, De Silva, la trasferisce anche nel modo di scrivere poco convenzionale. Gioca con le parole, si diverte, le assapora in una sorta di sottile autocompiacimento. Si offre a un lettore ironico e attento, che vuole e sa riflettere. Un lettore esploratore del sé che desidera affrancarsi dall’ipocrisia dilagante e guardarsi per ciò che è, senza maschere né intermediazioni. Con la più assoluta sincerità.

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