di Silvana Giuliano
Negli anni ’90 circolava una bruttissima pubblicità: un uomo colpito da HIV era circondato da un alone blu elettrico e contagiava tutti coloro che incontrava semplicemente stringendogli la mano.
Questo tipo di immagine è rimasta impressa nella mente di tutti noi, facendoci immaginare il sieropositovo come un soggetto da evitare a vista. Ed è proprio da questa immagine che voglio partire.
Il libro narra la storia di Jonathan, un ragazzo di 31 anni, che soffre di una febbre che non passa e così da il via a tutta una serie di analisi per capire quale sia l’origine della sua infezione.
Attraverso i suoi occhi assistiamo a tutti gli step, i dottori, le analisi e le reazioni di chi ha intorno, compagno e madre in primis. Nel frattempo noi ci leghiamo a lui, lo vediamo nascere e crescere in un hinterland in cui negli anni ’90 vivevano coloro che non erano abbastanza per la grande metropoli. Conosciamo una Rozzano che lo respinge e con cui non riesce a empatizzare. Attraverso le ferite della sua infanzia, quelle in cui in molti di noi si ritrovano, acquisiamo la consapevolezza della sua condizione: essere sieropositivo. Sentiamo, tramite la sua sensibilità, il rumore di tutti i nostri cliché che si sgretolano, ‘si ammalano soltanto i drogati, le prostitute, o chi fa sesso non protetto’. Soffriamo con lui per la lontanaza della madre, del padre, negli screzi delle due famiglie divise, nelle lacrime di un bambino troppo diverso dagli altri che riesce a rifugiarsi soltanto nei libri, di cui diventa ingordo divoratore. Ci affezioniamo a Jonathan, alle sue debolezze, più lo conosciamo più ci scopriamo a tifare per lui, a sperare fino all’ultimo in un esito diverso da quello purtroppo inevitabile.
Questo libro lo consiglio perché rappresenta un processo di crescita per tutti noi. Nella sua estrema timidezza, Jonathan mostra un coraggio irripetibile, spogliandosi di tutte le maschere che la società vorrebbe imporgli, guardandoci negli occhi e dicendoci: Io sono questo. E sto bene.